Trovarci vuoti è la migliore e più solida conferma che siamo fatti per l’Infinito

“No, non muovetevi
c’è un’aria stranamente tesa
c’è un gran bisogno di silenzio
siamo come in attesa”.

Così cantava Giorgio Gaber nella sua canzone “L’attesa”. C’è in quel componimento come la moderna versione di un bisogno che l’uomo porta dentro di sé da sempre. Cerchiamo, ci affanniamo, rincorriamo cose che ci lasciano con un bisogno sempre più profondo di significato.

Trovarci vuoti è la migliore e più solida conferma che siamo fatti per l’infinito; non per un bene ma per “il Bene”! Tradire il desiderio d’infinito che è in noi, sarebbe come chiuderci in una gabbia e  indossare l’abito consunto dell’abitudine e della rassegnazione.

Trovarsi, invece, in una posizione di attesa – consapevole, densa di domanda e di silenzio – ci apre all’ascolto, all’incontro con il Mistero di Dio nascosto tra le pieghe dell’esistenza.

Attesa e silenzio ci aprono così alla speranza che la promessa costitutiva del nostro cuore trovi risposta.

Mi piace, nel cuore del tempo di Avvento che ci prepara al Santo Natale, rileggere la poesia che Clemente Rebora scrisse poco prima della sua conversione: “Dall’immagine tesa”.

Dall’immagine tesa

vigilo l’istante

con imminenza di attesa –

e non aspetto nessuno:

nell’ombra accesa

spio il campanello

che impercettibile spande

un polline di suono –

e non aspetto nessuno:

fra quattro mura

stupefatte di spazio

più che un deserto

non aspetto nessuno:

ma deve venire;

verrà, se resisto,

a sbocciare non visto,

verrà d’improvviso,

quando meno l’avverto:

verrà quasi perdono

di quanto fa morire,

verrà a farmi certo

del suo e mio tesoro,

verrà come ristoro

delle mie e sue pene,

verrà, forse già viene

il suo bisbiglio.

Questa poesia, universalmente riconosciuta come il capolavoro di Rebora, sta sulla soglia della sua conversione: scritta nel 1920 e posta in chiusura dei Canti anonimi, sigilla la produzione “laica” di Rebora. Poesia dell’attesa, o meglio dell’Atteso, è stata definita “la lirica italiana più religiosa e vibrante del nostro tempo”.

“L’immagine tesa dell’incipit – spiegherà Rebora ormai vecchio – è la mia persona stessa assunta nell’espressione del mio viso proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il Dulcis Hospes animae (il dolce ospite dell’anima)”.

L’Ospite atteso verrà. Fragile è la mia capacità di vigilanza, sempre minacciata dalla distrazione ma, se resisto nell’attesa, non potrò non assistere al Suo impercettibile “sbocciare”.

La Sua venuta sarà un avvenimento “improvviso”, imprevisto; e porterà il “per-dono”, il grande dono della vittoria sul peccato e sulla morte. Verrà come certezza che c’è un “tesoro”, per acquistare il quale vale la pena vendere tutto.

«Verrà, forse già viene»: la Divina Presenza è alle soglie e chiede un totale tremante silenzio perché possa essere udito il suo discreto “bisbiglio”.

Testimoniando la propria fede a Eugenio Montale, Rebora – negli ultimi anni di vita – tornerà su quel bisbiglio: «La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto».

Si tratta allora di dare corpo a un’autentica pedagogia del desiderio.

One thought on “Trovarci vuoti è la migliore e più solida conferma che siamo fatti per l’Infinito

  1. …l’Attesa è una questione di cuore e di fede.
    come insegna don Divo Barsotti: è una preparazione all’incontro, in cui Egli si dona per donarsi ancora di più la volta dopo. E’ un desiderio di Dio, un desiderio che è gioia, bellezza.
    Ma ci credo veramente?

    "Mi piace"

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