Tutti aspettano qualcosa, o qualcuno. La madre un po’ ansiosa aspetta il figlio che fa tardi di notte, l’innamorato la fidanzata perennemente in ritardo, il pendolare il treno che non arriva mai. Attese da poco, forse, ma sappiamo che ce ne sono di più grandi e profonde.
C’è chi da anni aspetta un lavoro sicuro e vive i suoi giorni nella precarietà e nell’incertezza. Ci sono coppie di sposi che attendono un figlio che tarda a venire, o giovani che invecchiano e sfioriscono senza che arrivi l’amore. C’è chi da tempo, ormai, sogna una pace impossibile, un chiarimento o una riconciliazione che ridia fiato alla vita; c’è un mondo intero che prova a non perdere la speranza e la fiducia in un futuro migliore. Potremmo andare avanti all’infinito a snocciolare un rosario di desideri e di aspettative, di miraggi e di sogni che fanno di tutti noi creature in attesa.
Mi dico che aspetto Dio, che attendo Gesù, il suo ritorno. Come cristiano e come prete non posso non ricordarmelo mentre cammino verso il Natale, e provo a scoprire tracce del volto dell’Altissimo nel volto di chi incontro per la strada o confessando e raccogliendo confidenze, o celebrando l’Eucarestia feriale per pochi fedeli, o prendendomela per il tempo che mi manca.
Provo ad attendere un segno del suo passaggio in mezzo alla confusione della vita, a non perdere la speranza e la fede tra i problemi del quotidiano e le ansie per il futuro.
Vedo che il tempo scorre, così la vita passa in fretta e si consuma in un attimo. Ma è proprio vero che aspetto Dio? A volte mi pare di dimenticarlo e mi ritrovo sequestrato dalle mie povere aspettative anziché aperto alle grandi speranze che la Parola mi suggerisce, alla notizia buona del Vangelo che mi fa guardare con fiducia alla mia storia, al ritorno nella gloria del Figlio che promette un futuro eterno di felicità nel seno del Padre e nella luce dello Spirito.
Davvero sto aspettando il Signore? Mi dico che ci sto provando. E mi rendo conto – insieme a tutto questo – che ogni anno rischio di trascurare un aspetto che è forse il più importante, quello decisivo. Un “Avvento al contrario”: mi piace chiamarlo così. In che cosa consista è presto detto. Non c’è soltanto la mia attesa di Dio, povera e intermittente; più radicalmente c’è Dio che mi aspetta, che aspetta proprio me. L’Avvento cristiano non racconta soltanto la storia di un’umanità che ha sete di Dio, anche se spesso se ne dimentica e lo trascura, ma anche e soprattutto la storia di un Dio che va in cerca dell’uomo e pazientemente lo attende quando si smarrisce e perde la strada, quando cade e si confonde, inciampa e si ferisce.
Il Signore ci chiama soprattutto a vivere questo “Avvento al contrario”, a guardare a Lui, all’infinita condiscendenza di un Dio che non ha paura e non ha fretta, che rispetta i miei tempi e comprende la mia povertà, che “sta alla porta e bussa” in attesa che io gli apra per far festa con lui.
È lui che “aspetta me”; non che “si aspetta qualcosa da me”. E c’è una bella differenza.
Non aspetta che diventi migliore per potermi accogliere, o che gli offra un mucchietto di preghiere o un gruzzolo di buone opere. Aspetta me, così come sono, con tutta la fragilità del mio essere che non si dà forza, con la contraddizione delle mie scelte quotidiane e il peso dei miei peccati.
Quanto tempo lo farò attendere ancora? Perché esito, e mi perdo nelle mie paure, quando vorrei con tutto me stesso corrergli incontro?
Buon Natale!