Scrive Søren Kierkegaard nell’Esercizio del cristianesimo:
«In rapporto all’Assoluto non c’è infatti che un solo tempo: il presente; per colui che non è contemporaneo con l’Assoluto, l’Assoluto non esiste affatto. E poiché Cristo è l’Assoluto, è facile vedere che rispetto a lui, è possibile solo una situazione: quella della contemporaneità» (S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, a cura di C. Fabro, Studium, Roma 1971, p. 126).
Ha senso parlare della fede solo dentro un rapporto di contemporaneità con Cristo. Nell’udienza del 23 gennaio 2013, il Papa Benedetto XVI, iniziava a commentare il Credo, richiamando il fatto che l’atto del credere è adesione, accoglienza e obbedienza a Dio che si rivela:
Poter dire di credere in Dio è dunque insieme un dono – Dio si rivela, va incontro a noi – e un impegno, è grazia divina e responsabilità umana, in un’esperienza di dialogo con Dio che, per amore, «parla agli uomini come ad amici», parla a noi affinché, nella fede e con la fede, possiamo entrare in comunione con Lui.
Riecheggiano qui due passaggi ben conosciuti della costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II, Dei Verbum:
- il n. 2 in cui si dice che Dio “per la ricchezza del suo amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con loro per invitarli e ammetterli alla comunione con sè”.
- il n. 5 dove è detto che “a Dio che rivela è dovuta « l’obbedienza della fede» (Rm 16,26; cfr. Rm 1,5; 2 Cor 10,5-6), con la quale l’uomo gli si abbandona tutt’intero e liberamente (homo se totum libere Deo committit) prestandogli «il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà» e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa.
“Homo se totum libere Deo committit”
Il grande teologo Romano Guardini (il 16 dicembre 2017 a Monaco si è aperta la sua causa di beatificazione) fa notare che ciò che il Nuovo Testamento intende per “fede” non è un attitudine religiosa universale che può ricevere i contenuti più diversi, al contrario ha un carattere unico ed esclusivo. La fede non è un concetto superiore che converrebbe a numerose specie subordinate (la fede cristiana o islamica, il paganesimo degli antichi o il buddismo e via dicendo), ma è un vocabolo che designa un fatto unico: la risposta data dall’uomo al Dio che è venuto nel Cristo. (Cf. R. Guardini, La vita di fede, Brescia 2008, p.22.)
Possiamo allora dire che non solo questo “abbandonarsi interamente e liberamente” è ciò che ciò che chiamiamo l’atto di fede – dunque, il credere – ma anche che la fede è il suo contenuto, vale a dire, è determinata da ciò che essa crede. La fede è il movimento vivo verso Colui in cui si crede.
Credere è camminare. La fede è un cammino che dura tutta l’esistenza, ma che non è compiuto da soli: esso si pone sotto la compagnia del Risorto che ad ognuno viene incontro come ai due discepoli di Emmaus per spiegare il senso dell’esistenza.
Il cammino è posto sotto la luce: credere è diventa così un camminare nella luce del Risorto. Per l’uomo che desidera la vita, che brama la luce della vita per poter camminare in essa, diventa necessario porsi nel cono di splendore che emana dalla persona di Cristo e dalla verità che egli porta con sé.
Nel mistero del Verbo il mistero dell’uomo.
È significativo a questo riguardo il testo della costituzione conciliare Gaudium et spes 22: “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… Cristo, che è il nuovo (novissimus) Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione”. L’uomo non è né un problema né un enigma, ma un mistero in quanto riflesso del Mistero stesso di Dio. In nota al testo è posta una interessantissima citazione di Tertulliano (La resurrezione della carne) in cui si dice: “Qualunque fosse la forma in cui venisse effigiato quel fango, in esso veniva pensato Cristo, che sarebbe divenuto uomo”. La creazione di Adamo si fa pensando al Cristo venturo. Il Paradiso della Genesi è il Cristo stesso.
Dopo aver sottolineato che Cristo svela l’uomo all’uomo si dice che gli manifesta la sua altissima vocazione, la quale «è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale».
Il termine vocazione ci pone innanzitutto di fronte all’operare gratuito di Dio, dal quale riceviamo la gratuita chiamata a vivere la vita in Cristo. È Dio che chiama con una iniziativa tutta sua e totalmente gratuita. La sua chiamata è grazia che personifica, nel senso che rende colui che è chiamato persona capace di entrare in dialogo col suo Creatore che incessantemente lo chiama. Quella della chiamata è una categoria che esprime compiutamente la realtà della Grazia.
L’uomo esiste perché Dio gli ha rivolto la parola, lo ha chiamato all’esistenza e continuamente lo invita ad essere suo interlocutore. L’uomo si caratterizza così come essere della risposta. Parlare di vocazione dell’uomo significa riconoscere che l’uomo esiste perché Dio gli ha rivolto e continuamente gli rivolge la parola, lo ha chiamato all’esistenza e continuamente lo invita ad essere suo interlocutore. La chiamata di Dio, infatti, «non si esaurisce in un intervento puntiforme che crea, salva e poi abbandona al proprio destino un uomo dotato degli strumenti di gestione del proprio futuro», ma è appello continuo che mira a trasformare i singoli momenti dell’esistenza in risposte salvifiche, in una storia di libertà e di amore.
La vocazione dell’uomo in Cristo assume così il duplice significato di vocazione alla salvezza, ma, nello stesso tempo, ad una vita in accordo con la salvezza, cioè ad una vita perfetta nell’amore. Il concetto di chiamata si completa con quello di risposta: credere dunque è camminare sulle tracce di Cristo.
L’uomo è tanto quanto risponde alla chiamata di Dio: divenire Dio per partecipazione nel Cristo.
E nel Cristo eleva se stesso e tutta la creazione alla gloria.
Non ci sono altre vocazioni, ed ogni elezione rientra totalmente e completamente in questa.
"Mi piace""Mi piace"