Sto leggendo un libro che si intitola “In sinu Iesu”. Sottotitolo: “Il Diario di un sacerdote in preghiera”. Questo libro – come si legge nell’introduzione – è la straordinaria testimonianza di un’amicizia che trascende tutte le misure terrene. Si tratta di dialoghi interiori tra Gesù e un monaco benedettino avvenuti nel silenzio dell’adorazione eucaristica.
Mi colpisce profondamente questo passaggio:
Oggi (si riferisce a giovedì 11 ottobre 2007), mi sembra che fosse durante i misteri gloriosi del Rosario, il Signore mi ha parlato di una Pentecoste sacerdotale, di una grazia ottenuta per intercessione della Vergine Maria per tutti i sacerdoti della Chiesa. A tutti i sacerdoti sarà offerta la grazia di una nuova effusione dello Spirito santo, per purificare il sacerdozio dalle impurità che l’hanno sfigurato e per restituirgli uno splendore di santità come la Chiesa non ha mai avuto dal tempo degli Apostoli. Questa Pentecoste viene preparata già nel silenzio e nell’adorazione del Santissimo Sacramento. I sacerdoti che amano Maria e che sono fedeli nel pregare il suo Rosario saranno i primi a beneficiarne. Il loro sacerdozio sarà meravigliosamente rinnovato ed essi riceveranno un’abbondanza di carismi per sconfiggere il male e per guarire coloro che sono sotto l’influenza del Maligno.
(In Sinu Iesu, ed. Ancilla, p. 9).
Leggendo queste righe, ho immediatamente pensato a tutti i miei confratelli nel sacerdozio e, più in particolare a quelli del mio presbiterio diocesano. Con molta semplicità desidero condividere i pensieri che mi sono affiorati, forse più che nella mente nel cuore. Sono i pensieri poveretti di un prete di campagna.
In questi giorni, a motivo della situazione inedita in cui ci siamo venuti a trovare a causa dell’epidemia di coronavirus, tutte le attività pastorali sono ferme; sono chiusi gli oratori, sospesi gli incontri di catechesi, annullati gli appuntamenti con i giovani, come pure i cenacoli per i fidanzati e i gruppi famiglia, le benedizioni alle famiglie, le lezioni di religione o di teologia per chi insegna. Anche il prete si è ritrovato a rimanere “in casa”. In un attimo la nostra vita, spesso frenetica, ha subito un repentino arresto, sprofondandoci quasi in un “senso di vuoto”.
Mi piace pensare che è il Signore che ci prende per mano e ci conduce in questo “vuoto”, ma solo per manifestarsi ancora di più, perché laddove c’è il vuoto, lì c’è anche la possibilità di riempirlo maggiormente. Laddove non vi è alcuna “utilità umana”, dove vi è anche desolazione, allora la speranza diventa più vera, più pura.
Comprendo allora che quello che stiamo vivendo è il tempo della “pura speranza”, ossia del vuoto creato (o quantomeno permesso) da Dio affinché nella nostra anima non vi sia altro che Lui. Da questo fondo dell’anima (il grande Silvano del Monte Athos parlava di inferi interiori) sgorga più puro il grido della preghiera, proprio perché non vi è nessuno se non l’anima, spogliata di ogni cosa, e il Salvatore.
E così da un giorno all’altro ci siamo ritrovati a fare i sacerdoti-monaci, dedicando tutto il nostro tempo alla preghiera liturgica, alla celebrazione della Santa Messa, all’Adorazione Eucaristica silenziosa, alle confessioni (poche in verità anche per il fatto che la gente rimane a casa), alla preghiera di intercessione e di riparazione. Occasione privilegiata per riscoprire la chiamata a un autentico monachesimo interiorizzato, un monachesimo cioè che non conosce più la difesa del monastero, ma che ci porta a vivere, come Gesù, Figlio di Dio, in mezzo agli uomini non per essere come loro, ma per essere in mezzo a loro come il sacramento di Dio.
Sono certo che questo tempo di prova ci sta offrendo davvero la grazia di entrare in una nuova pentecoste sacerdotale, dalla quale il nostro sacerdozio non potrà uscirne se non rinnovato. In questi giorni siamo soli davanti a Dio. Non c’è il popolo di Dio alla celebrazione della Santa Messa per cui è sfidata ancora di più la nostra libertà: celebro perché c’è la Messa d’orario, o perché non posso vivere senza? Così per l’adorazione e tutta la nostra vita di orazione. Se un po’ di abitudine pure può aver corroso ciò che c’è di più bello del nostro sacerdozio, se ci siamo un po’ assuefatti alla realtà straordinaria che è posta nelle nostre mani, ecco il tempo favorevole per ritrovare nuovo fervore, per tornare al Signore con tutto il cuore.
Questa sosta forzata e benedetta è per noi tutti un’occasione per chiederci a che cosa abbiamo detto “sì”, che cosa è il nostro “essere sacerdote di Gesù Cristo”. Nel recente libro sul dono del celibato sacerdotale, il Papa emerito Benedetto XVI, racconta di una esperienza personale avvenuta alla vigilia della sua ordinazione sacerdotale. Ne parla così:
“Alla sera di quella vigilia, si è impresso profondamente nella mia anima che cosa significa davvero l’ordinazione sacerdotale al di là di ogni aspetto cerimoniale: significa essere sempre di nuovo purificati e pervasi da Cristo così che è Lui a parlare e agire in noi, e sempre meno noi stessi. E mi è divenuto chiaro che questo processo del divenire una cosa sola con lui e il superamento di ciò che è solo nostro dura tutta la vita e racchiude anche sempre dolorose liberazioni e rinnovamenti” (Dal Profondo del nostro cuore, p. 56).
Tre impegni per noi. Il primo è dare tutto. Il secondo è l’umiltà. Il terzo è la preghiera incessante. Poi farsi carico, vivere per gli altri e chiedere al Signore di essere noi a pagare, come il buon samaritano che si fermò a soccorrere il pover’uomo incappato nei ladri, lo medicò, lo portò alla locanda e poi disse all’oste: “Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”. Pago io per lui. Non solo soccorrerlo, ma addirittura “pagare per lui”! Questa fu l’opera del Cristo: pagare per gli uomini, al posto loro. Questa è la nostra vocazione.
Dico solo che è una medicina per l’anima .
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Questo è TEMPO per fermarsi, riflettere e riempirlo riprendendo quei valori dimenticati. Non è
perso. “NON HO TEMPO” non è accettabile, una scusa,amore per ogni nostro gesto, preghiera e tanto altro è fattibile
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