Appunti disordinati sul rapporto tra coscienza e magistero
Sto preparando in questi giorni un breve seminario di teologia morale destinato ad alcune monache di clausura che mi hanno chiesto un approfondimento sul tema. Giunto al tema riguardante il rapporto tra coscienza e magistero, scartabellando tra i miei fogli mi è venuta tra le mani una citazione di J. Ratzinger, che mi è sembrata più che mai attuale in questa situazione di confusione e soprattutto di contrapposizione intraecclesiale. Ecco il testo:
«È pertanto troppo facile contrapporre semplicemente la coscienza a un pronunciamento del Magistero. In un caso del genere mi devo piuttosto domandare: che cosa dentro di me contraddice questa parola del Magistero? È forse soltanto la mia comodità? O è forse l’esterna determinazione di una qualche way of life che mi permette ciò che il Magistero proibisce e che mi appare più fondata o più adeguata semplicemente perché ha dalla sua la plausibilità di questa società? Solo in una tale lotta la coscienza si può formare e il Magistero può attendersi che la coscienza gli si apra nella sua serietà. Se credo che la Chiesa promani dal Signore, allora il ministero della Chiesa ha il diritto, come fattore prioritario nella formazione della coscienza, di prendersi cura della sua vera educazione» (J. RATZINGER, La via della fede, 68).
Dopo averla riletta, ho ritenuto di postarla sulla mia pagina Facebook, pensando che potesse essere di aiuto ad altri, senonché un amico mi ha subito fatto notare che quel linguaggio così teologico gli suona un po’ difficile da comprendere e mi chiede di poter riesprimere il concetto semplificandolo.
Rispondo all’amico che il concetto centrale è che la coscienza va formata e il magistero della Chiesa non può essere considerato alla stregua di una qualsiasi opinione. Dirsi cristiani cattolici e poi fare scelte in contrasto con il magistero affermando di seguire la propria coscienza è segno che qualcosa non va. In questo senso è detto da Ratzinger che “la coscienza si può formare e il Magistero può attendersi che la coscienza gli si apra nella sua serietà”. Talvolta prevale un differente approccio al magistero, per cui uno anzichè aprirsi ad esso cerca di smontarlo o di contestarlo e così alla fine si difende da esso, col rischio di farsi un suo “credo” personalizzato.
Dentro di me speravo di non aver confuso di più le idee. Ne nasce un breve scambio di battute tra noi.
Allora – incalza l’amico – il magistero può modificare, cambiare cose o regole o ancora insegnamenti finora insegnati. Può essere che qualcuno faccia fatica, anche all’interno della chiesa stessa. Sbaglio?
Ci sono cose – rispondo – che non cambiano e cose che possono cambiare. La fatica non è un peccato. Non deve diventare obiezione, ma docilità nello Spirito Santo. Nel dialogo biblico tra Legge e Profeti vediamo già la contrapposizione tra diritto casuistico mutevole e i princìpi essenziali del diritto divino stesso. Nel Discorso della montagna Gesù si presenta non come un ribelle, ma come l’interprete profetico della Torah che Egli non abolisce, ma porta a compimento.
Pensavo di essere riuscito a chiarire, ma vedo poi in serata il commento di un’altra amica: “il linguaggio di alcuni testi è proprio ostico a tanti….me compresa! Avremmo bisogno di più spiegazioni chiare come tu riesci a fare benissimo. Grazie”.
Lì per lì mi dico che non mi va di farla lunga sui social a discettare di teologia e decido di non rispondere. Qualche minuto dopo, cambio idea e decido di provare a spiegarmi meglio. Così riprendo il discorso.
Volevo dire che il ricorso alla coscienza talvolta significa solo “secondo la mia opinione”. Tra coscienza individuale e magistero autentico, la “presunzione” di verità è a favore del magistero in forza del ruolo del magistero nella tradizione della Chiesa. La Tradizione morale della Chiesa è la necessaria mediazione attraverso la quale il singolo credente impara la “via del Signore” trasmessa dagli Apostoli. L’alternativa è il “fai de te” per cui uno finisce per prediligere il “vangelo secondo me”.
La coscienza non è in primo luogo la rivendicazione di un diritto, ma il riconoscimento di un obbligo. Cosa ho fatto e sto facendo per formare adeguatamente la mia coscienza? In questo cammino di formazione sono docile agli insegnamenti della Chiesa?
Che cos’è la coscienza? È semplicemente la mia convinzione? È soltanto ciò che in questo preciso momento mi risulta evidente e certo? Certamente essa è qualcosa di personale, che sento solo io, tanto che usiamo l’espressione “la mia coscienza”, eppure non è qualcosa di puramente individuale, anzi è proprio la voce della coscienza che ci apre, ci chiama ad uscire fuori dal circolo chiuso dell’io. (Etimologicamente coscienza significa: cum alio scire, conoscere con un altro).
La libertà di coscienza, insomma, non è da confondersi con l’atteggiamento di chi si giudica padrone assoluto di decidere ciò che è bene e ciò che è male.
Nell’opinione di molti si pensa che “seguire la propria coscienza” sia la suprema e forse l’unica norma della vita morale e di conseguenza nessuno avrebbe il diritto di fare osservazioni a chi afferma di agire secondo la propria coscienza. La coscienza appare alla fine come la propria opinione soggettiva elevata a norma unica e indiscutibile della morale, come uno scoglio contro cui viene a frantumarsi lo stesso magistero della Chiesa.
In un suo celebre passo, annotava il Card. John Henry Newman: “Se la coscienza ha dei diritti è perché essa ha prima dei doveri. Ma ai nostri giorni, nella mentalità della maggioranza, i diritti e la libertà di coscienza non servono che a dispensare dalla coscienza. (…) Un tempo la coscienza era un consigliere severo. Nel nostro secolo essa lascia spazio ad una contraffazione di cui non si era mai sentito parlare lungo diciotto secoli (…): il diritto di fare ciò che pare e piace” (Letter to the Duke of Norfolk, cap. V).
Poi si sa, l’appetito vien mangiando e così provo a scendere ancor più nel concreto con tre esemplificazioni, consapevole che più si scende nel concreto più è facile che si sollevi un po’ di polvere, purché non divenga un polverone.
Primo caso. Al n. 2270 del Catechismo della Chiesa Cattolica si legge: “La vita umana deve essere rispettata e protetta in modo assoluto fin dal momento del concepimento. Dal primo istante della sua esistenza, l’essere umano deve vedersi riconosciuti i diritti della persona, tra i quali il diritto inviolabile di ogni essere innocente alla vita”.
Alla luce di questo come è possibile dirsi cattolici e al tempo stesso affermare di non credere che la vita inizi al momento del concepimento o sostenere la liceità dell’aborto?
Secondo caso. Cito dal Catechismo della Chiesa Cattolica: “Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l’eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte. Essa è moralmente inaccettabile. Così un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un’uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore. L’errore di giudizio, nel quale si può essere incorsi in buona fede, non muta la natura di quest’atto omicida, sempre da condannare e da escludere”. (n. 2277)
Come può uno dire: da credente vado a firmare la petizione pro eutanasia?
Terzo caso. Riprendendo un importante pronunciamento della Pontificia Accademia per la Vita, dal titolo “Riflessioni morali circa i vaccini preparati a partire da cellule prevenienti da feti umani abortiti” (5 giugno 2005), come pure l’Istruzione Dignitas Personae della Congregazione per la dottrina della fede (8 settembre 2008) (cfr. nn. 34 e 35) e una nota della Pontificia Accademia per la Vita del 2017, in data 17 dicembre 2020 il Sommo Pontefice Francesco, ha esaminato e ha approvato la pubblicazione (avvenuta il 20 dicembre) di una Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede riguardo alla liceità del ricorso al vaccino anti covid.
In essa si afferma che “l’uso lecito di tali vaccini non comporta e non deve comportare in alcun modo un’approvazione morale dell’utilizzo di linee cellulari procedenti da feti abortiti”, come pure viene detto che “appare evidente alla ragione pratica che la vaccinazione non è, di norma, un obbligo morale e che, perciò, deve essere volontaria”.
Chi dunque sceglie di vaccinarsi compie un atto lecito. Chi sceglie di non vaccinarsi, ne ha diritto, “in ogni caso – si legge nella nota – dal punto di vista etico, la moralità della vaccinazione dipende non soltanto dal dovere di tutela della propria salute, ma anche da quello del perseguimento del bene comune. Bene che, in assenza di altri mezzi per arrestare o anche solo per prevenire l’epidemia, può raccomandare la vaccinazione, specialmente a tutela dei più deboli ed esposti”.
Ciò chiarito, come può un credente dire che chi si vaccina commette peccato? O addirittura che quello è il vaccino di satana difeso dall’anticristo e dalla falsa Chiesa?
In tutti e due i casi è fatto fuori il magistero della Chiesa e il “presunto” credente si ritiene al di sopra di esso, anzi rivendica di essere un vero credente per il coraggio della sua scelta “contro” la Chiesa che sempre sbaglia!
La prima lettura della Messa di oggi “Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.
Ho reso l’idea?
P.S. Mi ha colpito il questi giorni un passo della Lettera di San Paolo ai Colossesi che abbiamo letto alla Messa: “Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo” (Col2,8). Se lo dice San Paolo, c’è da credergli!
Grazie, don Paolo. Chiaro. Mi hai fatto venire l’acquolina in bocca. Non vedo l’ora di sentirti a Vigevano. Ciao
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