– Padre Teofilo, stai piangendo? – domandò il chierichetto mentre versava con mano un po’ tremante l’acqua per la purificazione del calice della Messa dopo la distribuzione della Santa Comunione.
Padre Teofilo non rispose. Aveva dalla sua la scusante che non poteva interrompere la preghiera di rito che aveva già iniziato a recitare a bassa voce: “Il sacramento ricevuto con la bocca sia accolto con purezza nel nostro spirito, o Signore, e il dono a noi fatto nel tempo ci sia rimedio per la vita eterna”.
Sì, Padre Teofilo stava piangendo e, mentre diceva quell’orazione, le lacrime gli scesero ancora più abbondanti e alcune di esse caddero nel calice che stava purificando. Gli vennero alla mente i versetti del Salmo 56: “I passi del mio vagare tu li hai contati, nel tuo otre raccogli le mie lacrime: non sono forse scritte nel tuo libro?”.
Col purificatoio del calice si asciugò le lacrime, lesse poi l’orazione finale, impartì la benedizione e al canto della Salve Regina si ritirò in sacrestia. Il piccolo chierichetto, che alla sua domanda aveva ricevuto solo un accenno di sorriso, non chiese più nulla. In realtà c’era ben poco da chiedere. Sicuramente anche Jacques de La Palice si sarebbe arreso all’evidenza. Ma perché Padre Teofilo stava piangendo? Qual era il motivo di quelle lacrime? Erano lacrime di commozione di fronte alla grandezza del Mistero divino (e nel caso non era di certo la prima volta) o c’era qualcosa d’altro?
Ad attendere Padre Teofilo al termine della Messa c’era un parrocchiano che recava con sé un fagotto avvolto in un canovaccio da cucina.
– Tenga, Padre, questo è per lei; – disse nell’atto di offrirgli il dono – mia sorella le manda un po’ di zuppa di verdura e un paio di fettine panate. Ha pensato che, col freddo che fa, potesse farle piacere.
– Grazie davvero per tanto buon cuore – disse Padre Teofilo ricevendo dalle mani del suo parrocchiano il tegame ancora caldo – grazie per questa Provvidenza.
– A dirla tutta mia sorella – riprese l’uomo – dice che dovrebbe mangiare un po’ di più. Ultimamente le è parso un po’ sciupato.
– È il nero che sfina – rispose scherzosamente Padre Teofilo, mostrando con la mano destra la sua lunga tonaca nera.
– Si tenga in forma, ché abbiamo bisogno di lei.
– Ringrazi tanto sua sorella e grazie anche a lei che ha fatto da postino!
– A proposito di postino, guardi, Padre, che le è caduta a terra una busta dal breviario.
– O sacripante! Oggi sono così sbadato che non me ne sono nemmeno accorto.
Detto questo si abbassò a raccogliere la busta, la strofinò leggermente sulla tonaca, come a volerla ripulire dalla polvere e la rimise all’interno del breviario. Il buon uomo che stava di fronte al Padre, notò che la sfregò all’altezza del cuore e pensò che dovesse essere una lettera importante. I due si congedarono e uno fece ritorno alla sua casa e l’altro si avviò alla canonica con la cena già preparata.
Il profumo della zuppa era davvero invitante, ancor più forse per il fatto che se l’era ritrovata già pronta. Doveva esserci un ingrediente speciale. Non poteva che essere il buon cuore di chi si era preoccupato di lui. Si fece il segno della Croce, benedisse il cibo in tavola e iniziò a mangiare.
– Ci vuole così poco! – pensò tra sé. Subito si ricordò di una vecchia filastrocca imparata sui banchi delle scuole elementari:
Ci vuole così poco a farsi voler bene,
una parola buona detta quando conviene,
un po’ di gentilezza che vale una carezza,
un semplice sorriso che ti baleni in viso,
il cuore sempre aperto per ognuno che viene,
ci vuole così poco a farsi voler bene.
Terminata abbastanza in fretta la cena, si sedette accanto alla stufa e, presa la busta che aveva riposto nel breviario, si mise a rileggere la lettera che conteneva.
Era di Padre Pascasio. Da tempo non si sentivano, ma l’affetto e l’amicizia erano rimasti immutabili. Si erano conosciuti a Roma, durante il tempo degli studi e poi ognuno era ritornato alla propria terra. Erano come due fratelli, si assomigliavano persino fisicamente, tanto che spesso si erano sentiti chiedere se fossero fratelli di sangue. Erano fratelli di fede, ma si sa che Dio unisce più del sangue.
– Mio caro Teofilo, amico del mio cuore – iniziava così la lunga lettera di Padre Pascasio – scrivo a te perché so che mi puoi comprendere. Ti apro il mio cuore. Mi sembra che siamo entrati in “altra cosa”, che non nemmeno una persecuzione, nemmeno soltanto un “momento difficile”, ma come un sogno. Siamo entrati in un sogno che ha preso tutto il mondo, e che ha preso anche la Chiesa. Un incubo più che un sogno. Santa Monica diceva al figlio suo Agostino: “Che cosa sto a fare qui? Ormai quello che dovevo fare l’ho fatto”. Capiscimi bene, questo desiderio di infinito non è né triste né angosciante, ma è semplicemente senso di finitudine del presente.
Padre Teofilo fu scosso da quelle parole che, in un certo qual modo, in fondo descrivevano un po’ anche il suo cuore. Riprese a leggere.
– Vedi, mio caro Teofilo, il nostro sacerdozio è di Cristo e non possiamo voltarlo noi dalla parte che vogliamo, senza essere sicuri di essere guidati dalla grazia divina. Abbiamo dato la nostra vita alla Vergine Maria e alla nostra consacrazione mariana io ci credo. Ora però sento sotto i piedi il tremolio della terra che vibra. Che cosa possa succedere, materialmente, non posso prevederlo, ma questo tremolio della terra io lo avverto. Vivo un misto di solitudine e incomprensione.
A quelle parole, Padre Teofilo, iniziò a piangere. Era per questo che piangeva anche durante la Messa, al pensiero della sofferenza che stava vivendo il suo amico e confratello e il non poter essere in quell’ora lì accanto a lui. Nella lettera gli confidava che si sentiva estraneo al suo popolo, che il suo ministero pastorale in fondo era ritenuto inutile. Che il prete ci sia o non ci sia poco cambia. Si sentiva alla stregua di un funzionario e la parrocchia ormai trasformata in una stazione di servizio.
– L’importante – scriveva Padre Pascasio – è che il prete distribuisca i servizi che gli vengono richiesti: messe, funerali, sempre meno matrimoni e battesimi, prime comunioni e cresime, il tutto possibilmente come da richiesta più per soddisfare i bisogni dell’apparenza che quelli della fede. E poi, quello che più ancora mi ferisce è la solitudine ecclesiale, quella che nasce in famiglia. Non so come è da te, ma qui da noi manca la comunione con i confratelli e con il Vescovo.
Padre Pascasio scriveva a Padre Teofilo di come non vedesse il suo Vescovo da parecchio tempo. In fondo lo scusava e cercava di capirlo: aveva sempre tante incombenze e affari da sbrigare. Eppure quanto gli avrebbe fatto piacere anche solo una telefonata per sentirsi dire: “Come stai? Come ti vanno le cose? Hai di che vivere? Ti trovi bene dove ti ho mandato? Hai qualche difficoltà?”.
Padre Teofilo – che aveva la grazia di avere un Vescovo che era un autentico padre – provò a chiedersi il motivo del fatto che i vescovi talvolta non comprendano di aver bisogno dell’amore dei propri sacerdoti. In fondo, anche il più bravo dei Vescovi cosa potrebbe fare senza i suoi preti? Non sono mica solo pedine da spostare ogni tanto da una parrocchia all’altra per tappare qualche buco o – come da qualche tempo andava di moda dire – per un legittimo e naturale avvicendamento? I preti hanno bisogno di essere considerati, cercati, e amati per quello che sono.
Tempo addietro a Padre Teofilo capitò di vedere su una rivista una simpatica vignetta in cui vi era scritto: I sacerdoti sono come gli aeroplani: fanno rumore solo quando cadono. Drammaticamente vera. Già, ma cosa si è fatto per quel poveretto perché non arrivasse a tanto? È stato amato quel prete? Quanto? Che si è fatto per aiutarlo? La Chiesa è stata davvero madre per questi suoi figli?
Padre Teofilo si avvide che i suoi pensieri lo stavano portando un po’ troppo lontano, forse anche perché in quei giorni i giornali parlavano di alcuni “scandali” che non potevano ricevere giustificazioni di nessun genere, ma che rappresentavano una grande ferita per tutti.
Tornò alla lettera del suo amico Pascasio. Lesse qualche riga e poi si alzò per andare a cercare tra i vecchi ritagli che aveva conservato fin dal tempo del seminario la Preghiera del sacerdote la domenica sera di Michel Quoist. La conservava ben ripiegata nella copertina della Bibbia. Da tempo non l’aveva più riletta; ora ne sentiva di nuovo il bisogno.
Signore, stasera, sono solo.
A poco a poco, i rumori si sono spenti nella chiesa,
le persone se ne sono andate,
ed io sono rientrato in casa,
solo.
Ho incontrato la gente che tornava da passeggio.
Sono passato davanti al cinema che sfornava la sua porzione di folla.
Ho costeggiato le terrazze dei caffè, in cui i passanti,
stanchi, cercavano di prolungare la gioia di vivere una domenica di festa.
Ho urtato i bambini che giocavano sul marciapiede,
i bambini o Signore,
i bambini degli altri, che non saranno mai i miei.
Eccomi, Signore, solo.
Il silenzio mi incomoda,
la solitudine mi opprime.
Signore, ho un corpo fatto come gli altri,
braccia nuove per il lavoro,
un cuore riservato all’amore,
ma ti ho donato tutto.
È vero, tu ne avevi bisogno.
Io ti ho dato tutto ma è duro, o Signore.
È duro dare il proprio corpo: vorrebbe darsi ad altri.
È duro amare tutti e non serbare alcuno.
È duro stringere una mano senza volerla trattenere.
È duro far nascere un affetto, ma per donarlo a Te.
È duro non essere niente per sé per esser tutto per loro.
È duro essere come gli altri, fra gli altri, ed esser un’altra.
È duro dare sempre senza cercare di ricevere.
È duro andare incontro agli altri, senza che mai qualcuno ti venga incontro.
È duro soffrire per i peccati degli altri, senza poter rifiutare di accoglierli e portarli.
È duro ricevere i segreti, senza poterli condividere.
È duro sempre trascinare gli altri e non mai potere, anche solo un’istante, farsi trascinare.
È duro sostenere i deboli senza potersi appoggiare ad uno forte
È duro essere solo,
solo davanti a tutti,
Solo davanti al Mondo.
Solo davanti alla sofferenza,
alla morte,
al peccato.
Figlio, non sei solo,
io sono con te,
Sono te.
Perché avevo bisogno di un’umanità in più
per continuare la Mia Incarnazione e la Mia Redenzione.
Dall’eternità Io ti ho scelto,
ho bisogno di te.
Ho bisogno delle tue mani per continuare a benedire,
Ho bisogno delle tue labbra per continuare a parlare,
Ho bisogno del tuo corpo per continuare a soffrire,
Ho bisogno del tuo cuore per continuare ad amare,
Ho bisogno di te per continuare a salvare,
Resta con Me, Figlio mio.
Eccomi, Signore;
ecco il mio corpo,
ecco il mio cuore,
ecco la mia anima.
Concedimi d’essere tanto grande da raggiungere il Mondo,
tanto forte da poterlo portare,
tanto puro da abbracciarlo senza volerlo tenere.
Concedimi d’essere terreno d’incontro,
ma terreno di passaggio,
strada che non ferma a sé,
perché non vi è nulla di umano da cogliervi
che non conduca a te.
Signore, stasera, mentre tutto tace e nel mio cuore sento
duramente questo morso della solitudine,
mentre il mio corpo urla a lungo la sua fame di piacere,
mentre gli uomini mi divorano l’anima ed io mi sento incapace di saziarli,
mentre sulle mie spalle il mondo intero pesa con tutto il suo peso di miseria e di peccato,
io ti ripeto il mio sì, non in una risata, ma lentamente, lucidamente, umilmente.
Solo, o Signore davanti a te,
nella pace della sera.
Come ebbe terminato di legge la preghiera, richiuse in fretta anche la lettera. Non continuò oltre nella lettura. Si preparò per il riposo della notte. All’alba avrebbe preso il primo treno per correre ad abbracciare Padre Pascasio.
Bellissimo racconto
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Grazie Don Paolo. Che bello , questo blog. Felice di averla conosciuta di persona, domenica scorsa, a Pavia. Cordiali saluti da Anna
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